L’Ato sud rappresenta un territorio che copre circa la metà dell’intera superficie regionale, spaziando dalle zone montuose fino al mare: 104 Comuni dove un servizio essenziale – l’igiene urbana – è affidato ad un gestore unico, Sei Toscana. Si tratta di una società a partecipazione pubblico-privata nata da un raggruppamento d’imprese già operanti nella gestione dei rifiuti tra Siena, Arezzo e Grosseto, che nel 2012 vinse la relativa gara bandita dall’Ato sud, espressione diretta dei Comuni del territorio. Sei Toscana si aggiudicò così una concessione ventennale, a partire dal 2014. Fu una rivoluzione. Si trattava di concretizzare per primi quanto previsto dalla legge regionale 61 già nel 2007, ovvero l’affidamento del servizio ad un gestore unico; la stessa trasformazione sarebbe stata traguardata dagli altri Ambiti territoriali solo anni dopo. L’Ato centro nel 2017, mentre l’Ato costa nel 2021. L’obiettivo era quello di superare la frammentazione delle piccole realtà preesistenti per realizzare una gestione industriale del ciclo integrato dei rifiuti, favorendo così una migliore sostenibilità ambientale e socio-economica dell’intero processo. Un’evoluzione verso l’economia circolare in ben cento Comuni toscani che è stata però rallentata in partenza da una maxi inchiesta sulla gara d’appalto, deflagrata nel 2016. Risultato: grande scandalo tra opinione pubblica e media, imprese alla gogna – oltre a Sei Toscana anche Sienambiente, nella compagine societaria della prima e ancora oggi asset industriale fondamentale per la gestione rifiuti nel senese –, stimati professionisti come Marco Buzzichelli ed Eros Organni ostracizzati. Per Sei Toscana è iniziato il calvario del “commissariamento” da parte del prefetto (o meglio, l’imposizione delle misure previste dall’art. 32 D.l. n.90 del 24/06/2014), cui è seguito quello del monitoraggio esterno, conclusosi solo nel 2020. Nel mentre il processo avanzava a rilento. Si appresta a chiudersi solo adesso, con sentenza attesa ad ottobre, a quasi sette anni dall’inizio dell’inchiesta. Nel mentre, il colpo di scena: come riporta l’edizione locale de La Nazione, nei giorni scorsi il «pm in aula ha chiesto scusa a tutti gli imputati» perché il fatto non sussiste. L’ipotesi di reato di turbativa d’asta andrà dunque a cadere: la sentenza dovrebbe chiarire a breve e appieno gli esiti della vicenda, anche per l’altro principale imputato, Andrea Corti, all’epoca dg dell’Ambito territoriale. Nessuno purtroppo restituirà questi sette anni al territorio e ai soggetti direttamente coinvolti nella vicenda, ma – affinché sia da monito – è necessario riflettere sull’origine del problema. Anche perché non si tratta certo di un caso isolato: in Toscana sbocciano continuamente nuove inchieste sulla gestione rifiuti, che si trascinano per anni e con esiti incerti. Per restare alle più note, si ricordi ad esempio l’inchiesta Demetra avviata nel 2016, la Dangerous trash del 2017, la Blu mais e la Stop stinks del 2020, l’inchiesta Keu e quella con al centro Alia nel 2021. Quante, dopo anni, finiranno in una bolla di sapone? A livello nazionale, come documenta l’Istat nel suo rapporto (2018) I reati contro ambiente e paesaggio: i dati delle procure, con l’introduzione del Testo unico ambientale i procedimenti penali in tema ambientale sono aumentati del 1300% ma le indagini durano in media 457 giorni, e inoltre nel 40% dei casi poi c’è l’archiviazione. Ma evidentemente non c’è contezza delle ingenti crepe che tutto ciò provoca – comprensibilmente – nella fiducia dei cittadini verso le imprese dell’economia circolare, e soprattutto verso le pubbliche istituzioni demandate ad autorizzarne la nascita e controllarne l’attività. Eppure i riflessi di questa sfiducia sono evidenti ovunque. Mentre crescono le inchieste calano gli impianti, i cittadini non li vogliono vicino: bella sì l’economia circolare, ma nel giardino di qualcun altro. E nel frattempo i costi (economici e ambientali) di gestione dei nostri rifiuti continuano a crescere. Come se ne esce? Da superare non c’è solo la spettacolarizzazione della giustizia e dell’informazione, che mette in prima pagina lo scandalo di una nuova inchiesta senza guardare alla sua conclusione, o anche solo al contesto in cui si sviluppa. La radice da estirpare è quella di un corpus normativo confuso e contradditorio che rende difficile la vita agli imprenditori di settore onesti, mentre sono proprio i disonesti a nuotare meglio in acque torbide. A dirlo sono sia gli ambientalisti sia gli imprenditori di settore, ma ormai ce l’ha ben chiaro anche lo stesso Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra). Si tratta di «semplificare normativamente. Eliminare il rischio (che è una certezza) della discrezionalità delle interpretazioni normative e tecniche», per dirla con le parole di un manager toscano che ha appena lasciato il settore. Ma ora non basta più limitarsi a dirlo: servirebbe che il legislatore ne prendesse atto, e iniziasse a riordinare davvero in casa propria. Chissà che in tempi di promesse elettorali non venga in mente a qualcuno.