Le (troppe) ambiguità su crescita e sostenibilità

La transizione energetica non è poi così urgente se ci sono di mezzo le elezioni del Parlamento europeo. Che cosa non si fa per qualche voto in più! Sono bastati un po` di trattori sulle strade del continente per provocare un sostanziale rallentamento nei programmi europei. Ed è del tutto paradossale che il passo indietro nel Green Deal abbia un`origine orange. Nell`Olanda di Frans Timmermans, il più verde dei leader europei, ex vice di Ursulavon der Leyen, la reazione degli elettori preoccupati per gli effetti (presunti) su bilanci e redditi dei programmi di riduzione delle emissioni di gas serra ha premiato il sovranista Geert Wilders. Le trattative per il nuovo governo sono in corso da settimane e tra l`altro nessuno si scandalizza per il ritardo. Succedesse da noi ci dilanieremmo sulla crisi istituzionale. Ma questo è un altro discorso. Nei giorni scorsi ha destato poi una certa impressione la decisione tedesca di astenersi sulla direttiva Corporate sustainability due diligence. Di che cosa si tratta? Le imprese di maggiori dimensioni dovranno verificare che nella filiera dei loro fornitori, presumibilmente sparsi in tutto il mondo (la deglobalizzazione rimane ancora uno slogan) siano rispettati, ai fini della sostenibilità, gli standard a protezione dell`ambiente, dei diritti umani e non si faccia ricorso al lavoro minorile. Sono i principi del Bangladesh Act come ci ricorda un`analisi molto approfondita comparsa su La Voce.info a cura di Natalia Bagnato, Marianna Peroni e Maria Pia Sacco. Tutto nasce dalla tragedia (1129 morti, oltre 2000 feriti) del crollo, i124 aprile del 2013, del Rana Plaza, un gigantesco luogo di sfruttamento del lavoro nel settore tessile. Scatenò un`ondata di indignazione, ormai dimenticata. La proposta di direttiva ha già trovato l`accordo in dicembre del cosid- detto trilogo ma è bloccata in Consiglio. È destinata a coinvolgere, nei primi tre anni di applicazione, solo le imprese con oltre 50o dipendenti e un fatturato di 15o milioni, oltre a quelle con più di 25o dipendenti, un giro d`affari globale di 4o milioni ma operanti però in settori considerati a rischio come il tessile, l`agricoltura e le estrazioni minerarie. Il programma In seguito è previsto che le norme siano applicate anche alle aziende di Paesi terzi con un giro d`affari di almeno 150 milioni nei 27 Paesi dell`Unione, in modo da contrastare la concorrenza sleale di chi produce e vende da noi in barba ad elementari norme di civiltà. Astenendosi, la Germania si è di fatto schierata contro la direttiva. La preoccupazione è stata soprattutto di parte liberale, espressa dallo stesso ministro dell`Economia, Christian Lindner, che ovviamente è sensibile alle ragioni dell`industria tedesca, della quale teme le reazioni dopo aver sopportato direttamente sulla propria pelle, e in piazza, la rabbia degli agricoltori. In momenti congiunturali diversi e senza l`assillo delle urne europee che mettono in tensione le coalizioni di governo (non succede solo in Italia), i timori sarebbero stati più lievi. Ma la Germania è sull`orlo della recessione e gli animi di conseguenza si surriscaldano. L`approvazione della direttiva comporta certamente costi aggiuntivi per le grandi aziende mentre le piccole, disseminate lungo le filiere di settore, non dovrebbero subire alcun aggravio ed eventualmente godere di eventuali aiuti o incentivi pubblici. In prospettiva però introduce serie barriere alla concorrenza sleale, soprattutto del Far East, rendendo più difficile l`accesso ai mercati europei di produzioni con un alto, e spesso non valutabile, costo sul piano ecologico e dei diritti umani. Berlino, a questo punto, ha premuto su Roma perché la seguisse e si creasse una minoranza di blocco. L`Italia si è come inabissata, specialmente dopo la presa di posizione contraria della Confindustria che ovviamente è sensibile per le stesse ragioni dell`industria tedesca facendo peraltro parte di alcune delle sue catene del valore. Si sta negoziando comunque un testo che possa ottenere il via libe- I ra degli ambasciatori presso l`Unione (Coreper). Secondo alcune indiscrezioni, il governo Meloni scambierebbe l`astensione sulla direttiva due diligence con un aiuto tedesco per ammorbidire le nuove regole, piuttosto severe e in qualche caso persino incomprensibili, per il packaging. In particolare l`eliminazione di alcuni divieti e l`attenuazione delle regole per il riuso della plastica, la spinosa questione delle monodosi. Se ne è discusso anche nelle ultime ore. L`Italia è peraltro all`avanguardia nel riciclo industriale di alcune materie prime. La presidenza di turno belga è, di conseguenza, chiamata a un`ulteriore opera di mediazione, ma su questa materia avrebbe molto da dire la componente verde della coalizione tedesca. Il semestre che precede il voto europeo è una sorta di «periodo bianco» nel quale l`ansia di portare a termine alcune riforme spendibili in campagna elettorale si scontra con il timore di completarne altre che possono apparire, almeno all`inizio, del tutto impopolari. Per esempio, il limite del 2035 per la fine della fabbricazione (non della circolazione) dei motori endotermici, non è rivendicato da nessuno dei grandi raggruppamenti politici europei. E questo la dice lunga sul fatto che le politiche verdi siano diventate, nelle ultime settimane, così scomode da essere rimaste sostanzialmente orfane. Tornando alla direttiva cosiddetta due diligence, che alcuni grandi gruppi italiani vorrebbero comunque approvare così com`è (la Ferrero per esempio), il suo destino pone due interrogativi strategici di non modesta portata. Il primo riguarda la posizione complessiva del governo Meloni sui temi della transizione energetica. Potremmo definirla gradualista (con qualche venatura negazionista). Un indirizzo che però si scontra con la spinta ad alcuni traguardi sui quali l`esecutivo si è già impegnato. Come, per esempio, la riduzione del 90% delle emissioni nei trasporti pesanti entro il 2040. Obiettivo che appare troppo ambizioso persino agli ambientalisti. Il secondo tocca l`immagine complessiva delle imprese lungo la via della sostenibilità, peraltro proclamata nei bilanci sociali ed esaltata in pubblicità in cui il futuro, grazie ai loro prodotti, è una sorta di Arcadia, linda e sognante. Come si concilia tutto questo con le azioni di lobbying in sede europea? Piccolo mistero.

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