Parte dall’Università il progetto internazionale di ripulitura del mare

UN MARE da salvare è la forte campagna di sensibilizzazione del momento: il nemico numero uno è la plastica, responsabile dell’inquinamento e della compromissione delle biodiversità, con potenziale rischio all’orizzonte anche per la catena alimentare. La nuova sfida internazionale, con epicentro il Mediterraneo, è partita ieri da Siena, con capofila l’Università degli Studi e un pool di ricercatori di ecolologia marina ed ecotossicologia ambientale. ‘Plastic Busters MPAs’ è il progetto europeo che ha carpito un finanziamento di 5 milioni di euro dalla Comunità Europea Cooperazione Interreg Med e che vede coinvolti 15 enti di 6 Paesi (Italia, Grecia, Spagna, Francia, Croazia e Albania). Un progetto che nasce dal primigenio ‘Plastic Busters’ dell’Università di Siena, nel 2013 (riconosciuto dalle Nazioni Unite) e l’ateneo senese ha la direzione scientifica del nuovo progetto internazionale, sotto la regia di Ispra, di durata di 4 anni: il fine è monitorare gli effetti delle macro e microplastiche sulle aree di particolare pregio naturalistico, per arrivare a definire politiche europee congiunte contro l’inquinamento del Mediterraneo. Le aree marine protette che finiranno sotto attenzione sono il Santuario dei cetacei (Pelagos), l’arcipelago toscano, il Parco nazionale di Caprera e quello di Zante (Grecia). «Il Mediterraneo è uno dei mari più inquinati al mondo: ci sono concentrazioni di plastica simili a quelle nei grandi vortici oceanici», dice la professoressa Maria Cristina Fossi, coordinatrice di Plastic Busters. Le previsioni sono davvero poco rassicuranti: con il trend attuale nel 2050 si avranno tanti pezzi di plastica in mare quanti pesci. Recenti studi dicono che ogni anno finiscono in acqua da 8 a 10 milioni di tonnellate di spazzatura, il 75% della quale è plastica. Una rete da pesca abbandonata rimane in mare anche 650 anni. E bisogna capire quali saranno gli effetti sull’ecosistema: la plastica infatti assorbe altri agenti inquinanti e funge da vettore. Le plastiche si trasformano in particelle sempre più piccole, vengono triturate e mangiate dai pesci, fino a provocarne al morte. Tracce di microplastiche sono state trovate in ben 121 specie di pesci, alcuni di elevato valore commerciale: «Anche se non c’è evidenza scientifica che la presenza di microplastiche nei tessuti dei pesci si trasferiscano nell’uomo, attraverso la catena alimentare. Certo è un potenziale rischio», precisa la professoressa Fossi. «Fra le tante attività – racconta la ricercatrice Cristina Panti – andiamo in mare, catturiamo le macroplastiche ma preleviamo anche attraverso biopsie tessuto dei cetacei, analizzandolo poi in laboratorio: le componenti plastiche più frequentemente rilevate sono polietilene, polipropilene e polistirolo. Tutto materiale abbandonato dall’uomo a terra, che poi finisce in mare».

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