Se fino a due anni fa era uno dei (tanti) problemi delle imprese manifatturiere toscane, oggi è diventata un’emergenza che incide sulla competitività: filiere strategiche come quella della carta, del tessile-abbigliamento, della pelletteria e del marmo sono in affanno per la mancanza di impianti locali in cui smaltire gli scarti di lavorazione, cioè i rifiuti industriali classificati come “non pericolosi” e gestiti per legge da aziende autorizzate. L’unica possibilità è dunque spedirli fuori regione (soprattutto ai termovalorizzatori di Brescia e Terni via gomma, ma si sta ipotizzando di andare in Austria via ferrovia), sopportando costi praticamente doppi. Impianti di smaltimento per questo tipo di rifiuti in Toscana non ce ne sono e, quel che è peggio, non sono neppure programmati. «Non esiste un piano regionale per i rifiuti industriali», sottolinea Marcello Gozzi, direttore di Confindustria Toscana Nord (Prato, Pistoia, Lucca), l’associazione che più di altre è interessata al tema perché abbraccia il distretto del tessile-abbigliamento di Prato (50mila tonnellate di scarti industriali da smaltire all'anno tra ritagli di stoffa, peluria e bricchetti), il distretto cartario di Lucca (200mila tonnellate l’anno tra fanghi e pulper) e il distretto apuo-versiliese del marmo (80mila tonnellate l’anno di marmettola proveniente dalle cave). «Senza impianti non si può competere – è il grido d’allarme che arriva dal mondo delle imprese – oltre all'aumento dei costi del gas, dell'energia elettrica e delle materie prime, dobbiamo sommare i costi di smaltimento degli scarti industriali praticamente raddoppiati negli ultimi due anni. Così i margini sono azzerati». La goccia che ha fatto traboccare il vaso, almeno per il settore moda, è stata la deassimilazione dei rifiuti tessili dai solidi urbani decisa dai Comuni pratesi, che li ha trasformati in rifiuti speciali, e che si è sommata alla chiusura di alcune discariche locali (causa incendio o inchieste giudiziarie) finora utilizzate per tamponare i problemi di smaltimento. E’ saltato così un sistema che già si reggeva su un equilibrio precario. Oggi molti confezionisti e molte aziende tessili, soprattutto lavorazioni conto terzi, sono obbligati a “convivere” con montagne di rifiuti: sacchi che invadono piazzali e magazzini in attesa di trovare un impianto in cui essere smaltiti, col rischio per l'impresa di finire nell'illegalità superando le soglie previste per lo stoccaggio temporaneo. Riciclare gli scarti tessili del resto è difficile: «Proprio oggi che l'economia circolare è diventata di attualità – spiega Ivo Vignali, presidente dell'omonima impresa pratese di finissaggio specializzata nel trattamento di velluti e tessuti per arredamento con 105 dipendenti - la burocrazia per classificare i residui di produzione come sottoprodotti da reimmettere nel ciclo produttivo è tanta, e in ogni caso questi scarti non hanno mercato». Nel distretto cartario di Lucca le “distorsioni” dell'economia circolare sono ancora più evidenti. Qui le aziende producono cartone da imballaggio utilizzando non fibre vergini ma soltanto carta riciclata proveniente dalle raccolte domestiche; eppure non sanno dove smaltire i fanghi e il pulper (un miscuglio di plastiche, metalli, vetro e altri residui, più fibre di cellulosa) che rimangono al termine del processo di riciclaggio, e che potrebbero essere bruciati in un impianto per produrre energia. Un progetto di questo tipo, presentato dal gruppo privato metallurgico Kme che ha una fabbrica in Garfagnana (Lucca), in realtà esiste e risolverebbe due problemi in un colpo solo: quello di approvvigionamento energetico dello stabilimento di rame e quello di smaltimento degli scarti dell'industria cartaria. Ma il progetto è fermo per l'ostilità dei comitati locali e per la mancata spinta della Regione, che pure ha aperto un tavolo di discussione con le industrie interessate al problema degli scarti di lavorazione. «Abbiamo avviato la revisione del Piano regionale sui rifiuti che indicherà nuovi obiettivi al 2023 – spiega l'assessore regionale all'Ambiente, Federica Fratoni – e sarà improntato all'economia circolare. A corredo ci sarà un piano attuativo anche sui rifiuti speciali prodotti nei distretti industriali, che dovranno essere reinseriti nel ciclo produttivo». Il timore delle imprese, sia industriali che artigiane, è che nel frattempo si arrivi al collasso. Soprattutto perché all'allarme dei produttori di cartone, tessile-abbigliamento e marmo, si è aggiunto da pochi giorni quello dei pellettieri, cioè di uno dei settori che più è cresciuto negli ultimi anni, qualificando Firenze come il distretto leader al mondo nella fattura di borse dei grandi marchi. Fino a qualche mese – spiega Tullio Zepponi, presidente di Cna Federmodada Firenze - gli scarti di lavorazione della pelle (ritagli di borse, portafogli, portachiavi ma anche capi d'abbigliamento) erano conferiti per la maggior parte in discarica; oggi sono dichiarati “pericolosi” per valori troppo alti di cromo e non vengono più accettati. Come fare? «Trasferirli in altre regioni – avverte Zepponi - o in Paesi più attrezzati come Austria e Slovenia con un aumento vertiginoso dei costi di smaltimento, dai 15/20 centesimi/chilo ai 35/45 centesimi/chilo». L'appello alla Regione è sempre lo stesso da parte di tutto il mondo imprenditoriale: «Consentire nel breve periodo il conferimento negli impianti esistenti e una strategia chiara in materia di rifiuti che non può prescindere da una previsione degli impianti».