‘PLASTIC BUSTERS’, acchiappa-plastica: è il progetto capitanato dall’Università di Siena che scandaglia il Mediterraneo a caccia di microplastiche. Maria Cristina Fossi (nella foto), docente al corso magistrale di Ecotossicologia e sostenibilità ambientale, è la coordinatrice del progetto. Professoressa, come sta il Mediterraneo? «Tutte le ricerche dimostrano che il Mediterraneo è una delle aree al mondo più colpite dal ‘marine litter’, cioè dai rifiuti marini e in particolar modo dalla plastica, visto che l’80% dei rifiuti presenti in mare è plastica». Quali sono le conseguenze del ‘marine litter’? «Le stiamo studiando. Di certo c’è un impatto sulla biodiversità. Abbiamo da poco pubblicato uno studio, il primo del suo genere per la varietà delle specie considerate: abbiamo trovato microplastiche negli organismi di 91 specie animali. Finora il monitoraggio riguardava sostanzialmente le tartarughe marine, le Caretta Caretta, ora abbiamo la certezza che l’impatto è molto vasto». Perché i pesci ingeriscono le plastiche? «Spesso sono scambiate per cibo. Le tartarughe confondono il frammento di un sacchetto con una medusa. Una balena che ogni giorno filtra 70mila litri di acqua non va a sputare i frammenti di plastica... Poi ci sono le catene trofiche. Ad esempio ci sono i mictofidi, pesci minuscoli grandi accumulatori di plastiche: pesci spada, tonni o delfini che se ne nutrono mangiano tutto, stomaco e quindi plastiche comprese». Mangiando pesci e molluschi c’è pericolo per la salute umana? «È presto per dirlo. Dire che c’è un pezzetto di plastica nello stomaco di un tonno o di una sardina non significa sostenere che ci sia un rischio alimentare. L’alimentazione umana implica l’eviscerazione degli animali, quindi le plastiche vengono scartate, per cui bisognerebbe prima dimostrare che c’è una contaminazione dei tessuti muscolari negli animali e poi valutarne la tossicità per l’uomo. Al momento non ci sono evidenze di effetti negativi sulla salute umana dovuti all’ingestione di microplastiche da parte dei pesci. In questo ambito è bene evitare inutili allarmi». Di che plastiche si tratta? «Nel Santuario Pelagos, area protetta a Nord della Sardegna, il 70-80% della plastica che galleggia è polietilene, cioè la plastica utilizzata per i sacchetti della spesa quotidiana. E’ paradossale che un oggetto adoperato per cinque minuti resti poi nei mari per centinaia di anni, ma è proprio questo il problema». I decisori politici sono coscienti della gravità dell’inquinamento marino? «Assolutamente sì. Il ‘marine litter’ ormai viene paragonato su scala globale al cambiamento climatico, anche a livello di G7. Ma ora si tratta di mettere in campo azioni coordinate su scala internazionale per mitigare e ridurre l’inquinamento». Quali sono le misure necessarie? «Sono numerose. Bisogna ridurre l’uso dei sacchetti di plastica, favorire il riciclaggio, ridurre il packaging e così via. Dobbiamo entrare nella logica dell’economia circolare, con il riuso sistematico dei materiali. Tutte cose ovvie, ma finché non vengono messe in pratica continueremo a trovare pezzetti di plastica in tutti gli animali marini, dagli invertebrati alle balene».